E’ di questi giorni la decisione di Nunzia De Girolamo, ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, di firmare il decreto che vieta la coltivazione di mais prodotto dalla multinazionale Monsanto.
In realtà, il ministro ha colmato un vuoto legislativo che durava sin dal 2003, l’anno in cui l’Italia, allineandosi con i principi del “Protocollo di Cartagena”, in merito ai temi sulla biosicurezza in Europa, recepiva la direttiva 2001/18/CE attraverso il decreto legislativo 224/2003. In pratica, l’Italia, unitamente a Regno Unito, Danimarca, Svezia, Finlandia, Ungheria e Slovenia, decideva di vietare ogni tipo di coltivazione di piante geneticamente modificate, allo scopo di tutelare la biodiversità delle colture locali, ma non la loro importazione.
Una politica, quindi, in contro tendenza rispetto agli altri paesi della CE e di altri continenti. Come ad esempio il Brasile, primo paese al mondo per quantità di terre coltivate con piante OGM, seguito dall’Argentina, Paraguay, Stati Uniti, India, Cina e, recentemente, dal Sud Africa.
La domanda che ci dobbiamo porre è: “La modificazione del genoma degli esseri viventi (piante e animali) quanto è veramente pericolosa? E quali possibilità, invece, di sviluppo sul piano economico può garantirci il controllo delle mutazioni genetiche?”
Si deve considerare che le mutazioni genetiche possono essere naturali o indotte tecnicamente, attraverso l’incrocio e la mutagenesi. Si hanno, infatti, notizie di modificazione del genoma risalenti a 14.000 anni fa, con l’addomesticamento del cane. L’uomo ha preso coscienza dell’effetto a livello genetico, indotto dai propri programmi di selezione, solo a partire dalla prima metà del Novecento.
Nella moderna ingegneria genetica, invece, si progettano a tavolino le modifiche genetiche da indurre, secondo un protocollo determinato dall’obiettivo che si vuole raggiungere. Così, ad esempio, verranno apportate modifiche genetiche ai topi di laboratorio (cosiddetti oncotopi) per lo studio di determinate malattie che affliggono l’uomo; oppure verranno progettate piante di pomodoro o cereali capaci di resistere agli sbalzi di temperatura. Gli esempi, in verità, sono moltissimi e in continuo aumento, in relazione all’esigenza di mercato o dei terreni (questo per quanto riguarda le piante) da destinare alle coltivazioni su larga scala.
Inoltre, per completare la disamina sugli aspetti positivi e gli indubbi vantaggi che si sono potuti riscontrare sino ad oggi non solo nel settore agroalimentare, ma anche in quello delle ricerche mediche, giova ricordare che attraverso l’ingegneria genetica sono state riprodotte in laboratorio le proteine umane ricombinanti come la somatostatina (1977) e l’insulina (1978), il farmaco biotecnologico più noto, che è stato commercializzato a partire dal 1981. L’insulina così prodotta ha certamente apportato un cambiamento epocale per l’industria del farmaco, aprendo la strada del settore biotecnologico all’industrializzazione, con conseguente abbattimento dei costi e fruibilità da parte dei pazienti. Oltre a ciò, si deve ancora considerare lo sviluppo delle nuove terapie non invasive, indotte dall’uso dei farmaci biotecnologici.
Sin qui abbiamo potuto parlare degli aspetti positivi che derivano dalla biotecnologia, quando questa è indirizzata allo sviluppo di strumenti volti al miglioramento della qualità della vita, non dimenticando che le piante OGM hanno consentito il superamento di gran parte dei fattori che ostacolavano la produzione ed il raccolto (resistenza ai parassiti alle escursione termiche ecc.), garantendo ad un tempo un sicuro guadagno agli agricoltori ed un abbattimento del prezzo dei generi alimentari, in relazione alla loro presenza sui mercati in quantità considerevoli.
Detto ciò, sembrerebbe che tutte le ragioni dovrebbero portare alla scelta del biotecnologico tout court e senza ulteriori esitazioni o ripensamenti. Purtroppo così non è, difatti molti studi recenti dimostrano la “tossicità” dei prodotti OGM, come ad esempio il mais o la soia che rilasciano tossine sui terreni che le ospitano, ingenerando nell’uomo e negli animali importanti reazioni allergiche. Ancora, la scelta di piante transgeniche in sostituzione di quelle derivanti dalla selezione naturale che avviene nei territori d’origine, impoverirebbe irrimediabilmente il patrimonio genetico di piante (prima) e animali (poi) poiché è attraverso la biodiversità che la natura ha potuto assicurare l’evoluzione e la sopravvivenza della vita, così come è arrivata sino a noi.
L’imperativo sembrerebbe quello di evitare un forte impatto negativo e destabilizzante sull’ambiente e sugli esseri viventi, da parte degli OGM.
Il dibattito comunque tra sostenitori della produzione con derivati OGM, e non, è aperto e ben lungi dal trovare una soluzione che possa mettere tutti d’accordo. Se non altro per i fortissimi interessi messi in gioco dalle multinazionali che investono ed operano nel settore della medicina, dei farmaci o delle produzioni agroalimentari su scala planetaria.
Per concludere, l’Italia ha scelto quindi di chiudere, anche se parzialmente, la porta principale attraverso la quale i prodotti transgenici possano arrivare nei nostri territori e, successivamente, sulle nostre tavole, pur tuttavia le aziende produttrici ad esempio di prodotti alimentari continueranno ad importare i derivati da tutti quei paesi che, invece, producono anche attraverso gli OGM, questo per effetto della “globalizzazione dei mercati” e delle sue leggi, che non possono essere né ignorate né accantonate, almeno per il momento. Il dibattito ora si sposta necessariamente in ambito comunitario al fine di tutelare il patrimonio nazionale e la nostra futura “sovranità alimentare”, intesa come capacità di decidere cosa e come produrre, tutelando la salute dei cittadini, anche a tavola.
L’interesse comune e la logica, che dovrebbe avere come obiettivo l’essere umano e la qualità della vita, in un sistema ecosostenibile, e che imporrebbe ai governi di tutto il pianeta di programmare la ricerca “super partes”, orientandola verso la sostenibilità, al fine di stabilire senza orpelli i limiti entro i quali è possibile muoversi, senza correre il rischio di impoverire la biodiversità e la vita stessa.