Martedì, 23 maggio 2013, nel corso della trasmissione televisiva “Ballarò” in onda su Rai3, oltre all’analisi relativa allo stato della politica del governoLetta, è stato proposto uno “special” dedicato alla Turchia, paese oramai emergente, a pieno titolo, nell’area del Bosforo e del medio oriente. Da qui la mia analisi ed alcune riflessioni.
Turchia: Ex impero bizantino e ottomano. Incastonata tra il Mar Egeo, il Bosforo e il Medio Oriente ad un passo dal Mar nero e dal Caucaso.
Ed è partendo dalla sua posizione geografica che si intuiscono le importanti risorse, non solo afferenti le materie prime (il petrolio ed il gas dalla vicina Russia, dall’Iraq, dall’Iran e dai paesi caucasici) ma e soprattutto dalle prospettive di ingerenza politica in quanto “La Tigre” del medio Oriente si candida a diventare l’interlocutore principale di quell’area geografica appena descritta e, in prospettiva, dei paesi africani.
Inoltre, come ben si sa, la Turchia da diversi anni sta tentando di entrare a far parte, a pieno titolo, anche delle nazioni dell’UE.
Turchia, con una popolazione di ben 72 mln di abitanti, con una scolarizzazione tra le più alte nel mondo, un livello di specializzazione degli operai da far invidia all’intero mercato del lavoro europeo, dopo aver superato brillantemente la grave crisi economica del 2001, ha decisamente intrapreso la strada delle riforme riguardanti il sistema paese, a cominciare dalle leggi (assai farraginose) che limitavano la possibilità di intermediazione e investimento, che riguardavano gli investitori esteri (in pratica si doveva passare solo attraverso le banche nazionali), per continuare con una massiccia campagna delle privatizzazioni (dai ponti sul Bosforo alla rete autostradale, tanto per fare un esempio).
Questa rivoluzione che sta traghettando la Turchia da paese oppresso economicamente a nazione che produce un PIL che per il 2013 si assesta al 3,8% e che per il 2014 salirà, secondo gli analisti dell’economia mondiale ad un + 5,3%. Un risultato che ha dell’incredibile per i paesi che appartengono all’eurozona e che debbono accontentarsi, ancora per quest’anno, di un + 1,2 % e non per tutti (a cominciare dall’Italia che continuerà, invece, a decrescere dello 0,2%) e che a buon diritto ha fatto conquistare alla Turchia l’appellativo di “Cina d’Europa”, tenuto conto del fatto che negli ultimi dieci anni il reddito pro-capite dei suoi cittadini si è triplicato, conquistando il sedicesimo posto tra le potenze economiche mondiali e il sesto tra quelle europee.
Il macchinista della locomotiva turca è il suo Premier Recep Tayyip Erdoğan, politico ambizioso e con le idee molto chiare relativamente a tempi e metodi per attuare i suoi piani politici-sociali ed economici.
Secondo Ahmet Insel, editorialista del quotidiano Radikal, questi provvedimenti dimostrano come il governo Erdoğan a partire dall’ultima vittoria elettorale stia assumendo un modo di governare sempre meno democratico: “In nome dell’interesse nazionale, ad esempio attraverso provvedimenti come la sospensione del diritto di sciopero in alcuni settori, sta cercando di imporre un modello autoritario di economia di mercato”.
Secondo l’Economist quella turca sarebbe un’economia “estremamente vulnerabile”. “Quando l’economia, a livello globale, attraversa una fase positiva c’è un forte afflusso di denaro verso la Turchia che offre alti tassi di profitto e la lira turca acquista valore, aumentano gli import e il disavanzo nella bilancia commerciale, ma quando gli investitori hanno paura allora i capitali escono dal mercato turco più rapidamente rispetto ad altri paesi, spingendo in basso la lira turca e provocando una riduzione della domanda interna”.
Negli attuali tempi di crisi internazionali la Turchia è presentate spesso anche come un esempio dai partner occidentali. Il suo mix di economia di mercato, democrazia ed islam porta molti analisti, a indicarla come un modello. Questo è avvenuto in aperta contrapposizione al disegno internazionale come ‘scontro di civiltà’, come sta succedendo in relazione ad esempio alle ‘primavere arabe’. Questo modello viene individuato come soluzione potenzialmente esportabile da un contesto nazionale agli altri attualmente in movimento e da stabilizzare, invece, al più presto.
Inoltre, il premier Erdoğan nel portare avanti le sue istanze politiche volte all’espansione dell’area di influenza della Turchia sta avvicinando alcuni paesi dell’area africana e altri, come ad esempio la Cina, ed altri ancora dell’area caucasica, non solo allo scopo di assicurarsi l’approvvigionamento del petrolio e dei suoi derivati, ma anche quello di realizzare il sogno di ogni leader politico locale che voglia elevarsi al rango di leader internazionale.
A fare da contraltare a questa immagine di Paese in crescita economica e politica, vi è tutt’ora una Turchia che fatica nel favorire una vera apertura democratica nei confronti delle minoranze culturali che insistono nel suo territorio (ben 4 volte quello dell’Italia): armeni, curdi e caucasici.
L’AKP, il principale partito nel parlamento turco (moderatamente aperto verso l’Islam e la jihad) dovrà affrontare decisamente e senza mezze misure le condizioni poste dalla Comunità europea per risolvere i problemi di democrazia che, agli occhi di noi occidentali affliggono ancora quel paese, nei confronti delle minoranze culturali e religiose.
Un Paese che, in ultima analisi, è ancorato in qualche modo al mondo bizantino e ottomano, alle sue radici storiche e culturali, e che al contempo è fortemente proiettato verso nuovi orizzonti, non solo culturali politici ed economici. Un Paese che si candida a diventare leader nell’intera area mediorientale e caucasica, con una forte propensione verso il mondo occidentale.