“Continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato…” In queste parole, attribuite a Jay Gatsby, Francis Scott Fitzgerald racchiude l’illusione che consuma il protagonista del suo famoso romanzo. Un antieroe straziato dall’ambizione di conquistare una unica, insostituibile donna e il mondo che le appartiene.
“The Great Gatsby”(1925), punto di riferimento della narrativa americana moderna, icona dei Roaring Twenties, delle flappers(le maschiette dai capelli corti, scatenate nel charleston), dell’Età del Jazz e della Lost Generation, nonché di quell’America invasa dai nuovi ricchi legati al boom dei traffici illeciti, rappresenta un’opera di simbolismo senza pari. La disincantata denuncia dell’illusorietà di ricchezze e sciali (dalle pagine già traspare l’ombra del crollo di Wall Street) va di pari passo con la disillusione amorosa ed esistenziale del personaggio Gatsby.
Tuttavia il romantico, misterioso, chiacchierato Jay, con la sua ossessione per l’irraggiungibile Daisy e anfitrione di feste sensazionali, ha pur sempre rappresentato una grossa tentazione per registi e cineasti. Ad oggi le realizzazioni cinematografiche traslate dal capolavoro di Fitzgerald arrivano a quattro. La prima, ora introvabile, è una versione muta del 1926, la seconda è quella del 1949 diretta da Elliott Nugent con Alan Ladd e Betty Field, mentre la terza, celebre pellicola datata 1974, è quella con la regia di Jack Clayton, la sceneggiatura di Francis Coppola e che poggia sul binomio vincente costituito dalla etera bellezza di Mia Farrow e dal fascino aristocratico di Robert Redford. Ed è proprio con quest’ultima che la recentissima trasposizione del romanzo(già in proiezione) viene inevitabilmente messa a confronto.
Baz Luhrmann ne è il regista di fama, Carrey Mulligan e Leonardo Di Caprio i nuovi Daisy Fay Buchanan e Jay Gatsby.
Una scelta estetica anche per quel volto da eterno adolescente del bel Leonardo, rispecchiante l’eterna adolescenza di un paese e di una cultura che gioca volentieri con lustrini e musica a molti decibel. Perfetto per far risaltare il disperato romanticismo insito nella storia. Probabilmente ancora più indicato del raffinato Redford nell’impersonare un popolano arricchito a tutti i costi, pur ammantato di una nobile sensibilità.
Comunque la recitazione di Di Caprio convince, altroché, tanto da salvare un filmone che parte con accenti piuttosto roboanti e frastornanti. Un tripudio di sfarzo, movimenti di massa, effetti speciali ottenuti anche grazie all’uso del 3D, bizzarrie anacronistiche e kitsch, commistioni di musiche hip hop e d’epoca (JAY Z incontra Gershwin e Cole Porter), lussureggianti sequenze festaiole…
Non si bada a spese. Tutto ciò è costato la bellezza di 127 milioni, mentre il budget del film del 1974 è stato stimato 6,5 milioni di dollari. Di sicuro Luhrmann riesce a rendere l’idea della decadenza, dell’eccesso e delle chimere del Sogno Americano, parafrasandone l’inutilità con l’effimera grandeur e gli sforzi di ascendere di status del protagonista. Va sottolineato che, se nel romanzo di Fitzgerald c’è la sottile capacità di alludere, di far percepire ciò che è discutibile e che comunque resta nascosto, in questa pellicola è esattamente il contrario. Il senso del mistero è stato certamente più rispettato nella versione di Clayton.
Ci vuole una buona mezz’ora di razzle-dazzle prima che la cinepresa entri nel vivo della storia, quando Di Caprio, con il suo Gatsby, riesce pure a trasmettere quel senso di profondissima solitudine e insicurezza(ma quanto è attuale!) unito ad una speranza cieca e testarda che lo condurrà al tragico epilogo.
E la Daisy della Mullighan? La ragazza ricca e dorata incontrata anni prima dall’ufficiale Gatsby, amata, attesa, sognata alla quale consacra la sua vita e per la quale crea dal nulla la sua fortuna, come da copione, è ambigua, viziata, irresponsabile. Di lei e dell’arrogante marito Tom Buchanan (Joel Edgerton) dice Nick Carraway (Tobey Maguire), narratore nel testo e nel film: “…sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro e nella loro ampia sbadataggine…” Più sensuale della delicata Farrow, sa spalancare gli occhioni con una voluta ingenuità che svela quella fatua indifferenza verso gli altri.
Alla svenevole Daisy si contrappone la dinamica Jordan Baker (Elizabeth Debicki) perfettamente a suo agio nel ruolo di amica e testimone dei fatti, quasi quanto Nick. Convincenti anche i coniugi Myrtle (Isla Fisher) e George Wilson (Jason Clarke), rispettivamente la povera innamorata di Buchanan e il giustiziere di Gatsby, il quale per fatale errore viene scambiato per l’amante e assassino della moglie.
Un’altra scelta tutta alla Luhrmann è quella di evidenziare il paradosso estetico e sociale tra la casa dei Buchanan a Long Island, sempre avvolta in una luce incantata, e quella di Gatsby, titanico miraggio destinato a svanire. Comunque entrambe in contrasto con la stamberga dei Wilson, situata nella polverosa, invivibile periferia dell’altrove sfavillante New York. Si avverte la pulsione di una condizione di grande agiatezza che in quegli anni conviveva con la miseria e i prodromi dell’imminente depressione. Anche se un po’ condizionata da una colossale messa in scena, nel complesso si tratta di una onesta e incisiva rilettura che rispecchia il cuore del romanzo.